Da una terrazza sul Mediterraneo, di Marco Cavara

Il viaggio non finisce mai.
Solo i viaggiatori finiscono, e anche loro possono prolungarsi in memoria, in ricordo…
Quando il viaggiatore si è seduto sulla sabbia della spiaggia e ha detto: non c’è altro da vedere, sapeva che non era vero…
Bisogna ritornare sui passi già dati,
Per tracciarvi a fianco nuovi cammini.
Bisogna ricominciare il viaggio.
Sempre.

(Josè Saramago)

Dove si nascondono i ricordi? In quale ombroso angolo del labirinto della mente si rifugiano, per sfuggire al flusso del tempo che vuole cancellarli?

Alcuni, soprattutto quelli più organizzati e contingenti ad alcune particolari circostanze, vengono cancellati al venir meno di queste.

Altri, legati a situazioni psico-sensoriali più profonde e radicate nell’esperienza vissuta, magari in particolari periodi della nostra vita, quando, in alcuni di noi, spumeggiano vaste nella pienezza le aspettative dell’essere, non si cancellano mai del tutto.

Probabilmente si eclissano, forse per riguardo nei nostri confronti, che altrimenti paragoneremmo a loro ogni attimo della nostra vita futura, venendone annientati. Forse dormono ma di un sonno leggero, che basta poco per risvegliarli, non necessariamente il ripresentarsi delle precise coordinate spazio-temporali che li hanno generati, ma piuttosto i sentimenti, i profumi, i suoni e le luci in cui sono nati e in cui hanno intriso la parte più sacra della nostra vita conferendole il senso più autentico e profondo.

Non hanno quasi mai contorni definiti ma trame luminose, come di nubi che corrono veloci su uno sconfinato orizzonte marino, nel cremisi di un tramonto che si riverbera in miriadi di specchi in ogni singola onda, dall’altezza prodigiosa di una immane scogliera.

Oppure un odore salmastro, che sale da oscure cale, insieme alla spuma delle onde, tra i richiami dei gabbiani, come mi è capitato in questi giorni di sentire dal terrazzino di un bianco borgo affacciato sul mare.

Erano luoghi che visitavo per la prima volta eppure è bastato un attimo, il profumo familiare di una erba aromatica appena sfiorata, vasi di terracotta smaltata dalle fogge sconosciute, sebbene mi paresse di averle sempre avute negli occhi come quelle viste mille isole fa, e quella luce, alla sera, quando si accende Vespero e lo scirocco fa correre le nuvole oltre l’ orizzonte... sì, ho capito subito che anche se ero entrato per la prima volta in quella stanza di fronte al mare, ero a casa mia, perché quei ricordi, quelli più cari, per me hanno la luce e i profumi del Mediterraneo.

Tra tutti, quelli che per primi hanno messo radici nel mio cuore, gettando le basi di un amore che durerà come la vita stessa, sono quelli che hanno il colore nero del basalto e dell’ossidiana, il colore viola delle acque profonde e le incredibili sfumature di verde delle foreste di pini d’Aleppo di Pantelleria, quando, nei tramonti di settembre il sole radente sembra sublimare il verde delle loro chiome in oro.

Negli anni della mia giovinezza avevo un caro amico che aveva una casa laggiù, erano gli ultimi anni del liceo e venimmo rimandati tutti e due, io in greco lui mi pare in matematica e decidemmo di passare l’estate a studiare nella sua casa di Pantelleria.

Fu così che la scoprii.

Eravamo entrambi appassionati di mare ma io non lo avevo mai conosciuto veramente perché quello che avevo frequentato era solo quello triste e poco attraente della riviera Romagnola dove i miei genitori mi avevano trascinato fino ad allora per le vacanze estive.

Quel mio compagno di liceo, invece, mi presentò il mare vero, quello blu cobalto, nervoso ma generoso, limpido, freddo e fragrante come un vino ghiacciato nel calore dell’estate e mi iniziò alla pesca subacquea, generando in me, ambientalista e animalista da sempre, uno dei più insanabili conflitti tra l’amore e il rispetto per ogni essere vivente e la straordinaria forza d’ attrazione che la caccia subacquea, in apnea con l’arpione, da allora ha sempre esercitato su di me.

Pantelleria è un’isola strana, o la si ama da subito di un amore viscerale o la si odia per sempre e a me è toccato di amarla.

Innanzitutto, è nera perché neri sono i vulcani e Pantelleria è un vulcano. Infatti, la Montagna Grande, che l’ha creata con le sue colate di lava in ere immemorabili, è un cono vulcanico con tanto di crateri satelliti ed inquietanti fumarole che sbucano qua e là, nelle sue pendici, a ricordare che là sotto soffia l’alito di un drago che dorme.

Inoltre, non ha spiagge, l’unica che può dirsi tale, bianca, quasi caraibica, con tanto di palme (da datteri) è quella dello Specchio di Venere, un caustico lago di soda che nelle cartoline, con tipico humour pantesco, viene spacciato per spiaggia marina.

Essendo fatta di nero basalto, d’estate è quasi impossibile camminare sulle sue scogliere senza fondere letteralmente le suole delle scarpe e le sue lave si sono raffreddate contraendosi e fratturandosi in lame così taglienti che chi dovesse inciampare e caderci sopra crederebbe di essere caduto su schegge di vetro.

Ma nelle notti d’autunno, ancora calde, quelle senza Luna, dissipata la foschia della calura estiva, puoi vedere un cielo così splendente che, dietro le nubi di Magellano, ti sembrerà di scorgere il cuore sfolgorante della Via Lattea mentre all’orizzonte il faro di capo Bon, in Tunisia, è lì a dirti che l’Africa misteriosa, proprio quella dei tuoi sogni con i suoi deserti, le sue foreste e le sue immense savane brulicanti di vita è così vicina che la puoi quasi toccare.

E in primavera ogni nicchia di basalto ospita un universo di muschi e di fiori dai mille colori e dai profumi inebrianti, i suoi antichi abitanti hanno costruito una rete mirabile di muretti e di piccoli, deliziosi orti circolari dove viti e ulivi secolari non superano il metro di altezza per poter crescere al riparo dai venti che la flagellano, e producono un’uva dai chicchi enormi e dolcissimi, lo Zibibbo, e capperi rinomati nelle loro cascate di fiori bianchi e rosa tra cui si rifugia il meraviglioso serpente di Pantelleria, di colore nero giaietto ma con uno splendido collare arancione e giallo, combattivo ma innocuo, gran mangiatore di topolini ed altri roditori che acchiappa e stritola tra le sue spire come un piccolo anaconda.
I suoi boschi di pini d’Aleppo, che dalle pendici della Montagna Grande scendono fino a lambire la Balata dei Turchi, una cala meravigliosa con le sue antiche miniere di ossidiana, sono di una bellezza indescrivibile quando a mezzogiorno si specchiano nelle acque color blu cobalto della baia.

Da allora ci sono tornato decine di volte, in ogni stagione dell’anno, e soprattutto in ottobre inoltrato, quando nella mia triste terra padana le nebbie già preannunciano un lungo lugubre inverno, in quell’isola incantata un sole meraviglioso, placati gli ardori d’agosto, matura quell’uva sublime e ti accarezza ancora con la lusinga di un’estate infinita mentre il Mediterraneo, che conserva il calore dei mesi roventi, ti accoglie ancora caldo e appassionato come una amante insaziabile.
Poi venne la Corsica.

Non ricordo come fu ma un giorno mi ci trovai, forse per caso, così vicina eppure lontana anni luce dagli umori grassi, pigri e nebbiosi della terra che mi ha visto nascere.

Stava là, immersa nell’azzurro del Tirreno, come un ponte naturale tra le Alpi torreggianti che ad ogni limpida alba invernale salutano dal continente il formidabile manipolo di fratelli che hanno lasciato sull’isola, riconoscendoli dal candido manto di neve che splende come per incanto nel mare, e le calde dune della Sardegna, laggiù a Sud, già in odore d’Africa.

A differenza dell’aspra e ostile Pantelleria, isola per iniziati, la Corsica conquista chiunque con facilità, per la sua verde bellezza, per il profumo cangiante del suo “maquis” di corbezzolo, mirto, elicriso ed altre settanta erbe che ti inebria appena vi metti piede.

Ma questo è ancora niente, io ci arrivai d’inverno, via mare da Livorno, e mi accolse l’aspra costa orientale di quella penisola che, come un indice puntato a Nord, arriva a Cap Corse.

La strada è costellata da paesini deliziosi, porticcioli di pescatori o fieri borghi di montagna e oltre alla sua bellezza, la cosa che mi ha sempre stupito è l’integrità architettonica e paesaggistica di quella terra: così doveva essere la nostra devastata Liguria nell’ 800.

Come qui si sia riusciti nel miracolo di vivere questi luoghi, che non si tratta di borghetti museo ma di paesi vivi, senza sfregiare tutto con osceni fabbricati che crollano ad ogni nubifragio e a sfruttare il turismo senza abbrutire la costa con repellenti complessi balneari come, appunto, è avvenuto in Liguria, per me rimane un mistero.

La via asfaltata corre sinuosamente fino a capo Corso poi piega a Sud, nel lato orientale della penisola verso il vasto cuore “continentale” di quel nocciolo di granito che è la Corsica.

Dopo avere doppiato i primi promontori, lasciata indietro Nonza con il suo borgo arroccato su una strana, immensa spiaggia nera, il paesaggio si apre e spazia verso Sud-Est dove si para davanti agli occhi del viaggiatore l’incredibile spettacolo di monti svettanti ammantati di neve che digradano, nel verde metafisico dell’inverno mediterraneo, verso il candore delle grandi spiagge di Saleccia e dell’Ostriconi , in fondo al “desert des Agriates” una landa selvaggia ed assolata regno incontrastato del “maquis”, mentre ad Ovest ti accompagna, con il suo profumo salmastro e la luce radente di dicembre, sempre lui, il Mediterraneo.

Allora, come attratto da un incantesimo, pieghi verso l’interno, verso quelle incredibili cime innevate che si innalzano a pochi chilometri dal mare, e ti ritrovi immerso in un altro mondo, un mondo di austere foreste di pini altissimi, a perdita d’occhio, che salgono lentamente fino ad inerpicarsi in gole buie sferzate dal Mistral per aprirsi poi in valichi montani dove gli alberi di quelle foreste, i pini Larici della Corsica, anziché piegarsi facendosi piccoli per meglio affrontare il vento e le tempeste, decidono di sfidarle ergendosi enormi come giganti in forme contorte e bellissime, vera quintessenza di forza e di tracotante potenza.

E come spesso accade a chi sfida gli Dei, a volte vengono abbattuti, e giacciono a terra per decenni in candide sculture di legno quasi pietrificato, se possibile ancora più belli di quando erano vivi perché in Corsica anche la Morte ama farsi bellezza.

I corsi poi, gente fiera e bizzarra, che si picca di un irredentismo romantico, dai modi bruschi che non tutti apprezzano, a me sono piaciuti subito come la loro musica e le loro struggenti canzoni. Inoltre, chi è riuscito a custodire così bene la bellezza della propria terra sarà sempre degno del mio massimo rispetto.
Infine, Lei, non dirò come e quando la incontrai perché, come disse Henry Miller non c’è prima e dopo, vecchio o nuovo, c’è solo la Grecia, un mondo concepito e creato per l’eternità.

Io ne ho vissuto un’infinitesima parte, però forse è proprio il senso dell’eternità la cifra di quello “spirito ellenico” di cui parlano e di cui si innamorano perdutamente tanti viaggiatori come me.

L’ho percorsa in lungo e in largo, per terra e per mare, esplorandone, forse per un amore eccessivo (e, lo ammetto, un po’ maniacale), gli angoli più sperduti come i villaggi di montagna dell’Epiro o i laghi di Prespes, sorta di mari interni dalle acque di Giada tra la Grecia, la Macedonia e l’Albania, con i loro villaggi di pescatori e cacciatori con un non so che di contrabbandieri come Psarades, rustico borgo in fondo ad un lungo fiordo, piccolo ma dalle taverne accoglienti e silenziose dove, su una terrazza in bilico sul lago di giada, tra un oliva di Kalambaka e un sorso di ouzo ghiacciato, puoi guardare le stelle mentre una piccola radio manda un ipnotico canto Kleftico.

Luoghi così sperduti che, ne sono sicuro, meno di un greco su cento li ha mai sentiti nominare, nascosti tra boschetti di bosso e di terebinto dove sotto immense querce vallonee riposano greggi vigilate soltanto da terribili molossi dell’Epiro, il cui sguardo ti segue decidendo il tuo destino.

O città così poco conosciute eppure bellissime come Ioannina con il suo lago, o Kastoria con le vecchie arkontiko, dimore storiche dove su ogni cosa aleggiano i fantasmi degli antichi signori ottomani perché in Grecia, l’Oriente, lo senti respirare, lo scorgi dietro ogni pietra, nelle note della sua musica e nel sapore dei suoi dolci di latte noci e miele.

E le sue infinite isole, io le ho amate tutte, quelle che ho visitato, si intende, perché nessuno può veramente dire di avere visto tutte le isole della Grecia.

Arcipelaghi verdi e profumati di resina da cui si distilla un famigerato vino, la Retsina, che sembra piacere solo a me che forse la amo troppo per disprezzarne qualcosa.

Altri bruciati dal sole e riarsi come deserti, le Cicladi e il Dodecanneso, con le Kore di un bianco abbacinante abbarbicate su brulle montagne tra ghirlande di mulini a vento frustate dal Meltemi.

O subcontinenti come Creta, con le sue montagne che cullarono Zeus in fasce quando Gea lo sottrasse al triste destino che lo attendeva, affidandolo alla capra Amaltea affinché lo nutrisse del suo latte. Creta, con i suoi antichi palazzi e la sua civiltà perduta, cancellata da una furia al di là di ogni esercito e di ogni bastione perché generata da un’altra isola, Santorini, che esplose nel più spaventoso cataclisma che la storia umana ricordi anche se ora ne rimane memoria solo nella sua caldera: un anello incastonato nelle acque di zaffiro e di ametista del suo mare, sempre lui, il Mediterraneo, che ora mi guarda, immenso, mentre sul terrazzino di quel bianco borgo richiamo i ricordi che, come un volo di storni, sono usciti al tramonto per volare , pazzerelli, indietro nel mio tempo, sulle sue acque, sulle mie acque.

Ora il sole è tramontato ma nel lungo crepuscolo invernale, ammantate da una incantevole luce azzurra e cremisi, bianche nuvole inseguono il sole che ora è scomparso oltre la linea dell’orizzonte, lontanissimo, e un pensiero, silenziosamente, si insinua nella mia mente: e se la morte fosse così? Come partire per un lunghissimo viaggio alato dietro a quelle nuvole, mentre lo scirocco ti gonfia le vele, tra le grida dei gabbiani… allora forse non farebbe più così tanta paura.

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